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Panini e libri di poesie: la mia vita al cimitero

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The Soul Selects her own Society: è la poesia di Emily Dickinson che, insieme a una potente coincidenza, ha generato la mia attitudine romantica nei confronti di Firenze. Avevo diciott’anni e fin lì Firenze per me era stata poca cosa: i ricordi d’infanzia di mio padre, qualche film in cinema che di lì a poco sarebbero scomparsi, qualche botta di vita con la famiglia al ristorante, oltre alla tradizionale trasferta della vigilia di Natale, insieme a mio padre e mio fratello, per comprare il regalo alla mamma. Poi, di colpo, quando mi sono iscritto all’università, è diventata la mia città. Partivo la mattina alle sette e mezza col treno e tornavo a Prato all’ora di cena — e per quante lezioni frequentassi, rimanevano parecchie ore libere.

Il modo di impiegarle, come dicevo, fu segnato da quella criptica poesia di Emily Dickinson (autrice che a quel tempo leggevo furiosamente) e da una di quelle coincidenze che fanno risplendere anche una vita modesta e invisibile com’era allora la mia. La poesia è una delle più belle, e però anche delle più oscure: parla, in pratica, del fatto che l’Anima sceglie la propria compagnia al raggiungimento della maggiore età, e poi diventa impenetrabile. Io avevo appena raggiunto quell’età, e avevo saputo che quella poesia era dedicata alla tomba di un’altra poetessa inglese, Elizabeth Barrett Browning, che si trovava nel Cimitero degli Inglesi a piazza Donatello, poco distante dalla mia facoltà. Scoprii così il mio primo luogo personale di Firenze: un’isola monumentale nel traffico dei viali di circonvallazione, un cimitero veramente assurdo, radioso, meraviglioso, nel quale, oltre alla tomba della Barrett e di svariate altre personalità straniere, si trovava anche quella di Giovan Pietro Vieusseux, il letterato svizzero cui era intitolato il Gabinetto a Palazzo Strozzi dove prendevo in prestito i libri che leggevo. Ma la coincidenza non fu questa. La coincidenza fu che un mio amico studente di Filosofia fuori sede mi presentò dei suoi amici studenti di Lettere fuori sede (chi di Roma, chi di Bari) che vivevano al Cimitero degli Inglesi, nella casa del custode. Diventai uno di loro, e così facendo ebbi accesso al cimitero anche fuori dall’orario di apertura. Ogni giorno andavo lì a mangiare il mio panino e a leggere Aurora Leigh o i Sonetti della Barrett — e se era bel tempo lo facevo davanti alla sua sfavillante tomba neoclassica, tra i cipressi che assorbivano il rumore del traffico dei viali.

Quel luogo era diventato mio. La mia attitudine ossianico-romantica nei confronti di Firenze nacque lì, e da lì si sviluppò. Piuttosto che spendere le ore libere nei monumenti che studiavo a lezione, seguivo le tracce della Barrett su per Bellosguardo e cercavo di penetrare nella Villa dell’Ombrellino — dove Galileo Galilei aveva scritto il Dialogo sui Massimi Sistemi ed Eugenio Montale i Tempi di Bellosguardo, e dove Ugo Foscolo aveva ambientato l’Inno a Vesta. Oppure girellavo per quelle campagne — cercavo il punto di vista dal quale Curzio Malaparte inquadra Firenze quando si affaccia alla finestra nelle pagine di Mamma marcia in cui si strugge al capezzale della madre — e girellando scoprii il Cimitero della Misericordia di Soffiano. Costruito alla fine dell’Ottocento, non era un gioiello come quello degli Inglesi, ma fu da me ugualmente frequentato e studiato. Non vi erano sepolti poeti o letterati — solo disparate personalità fiorentine —, ma mi introdusse alla raffinata grazia prospettica di Michelangelo Maiorfi, architetto in Firenze nel XIX secolo. Perciò, quando per il corso di restauro dei monumenti mi fu proposto il rilievo del Cimitero della Misericordia in via degli Artisti, l’arcano disegno che mi voleva esperto di sepolture fiorentine giunse al suo climax. Ben più prezioso di quello di Soffiano, cominciato all’inizio e completato alla fine dell’Ottocento (completato indovinate da chi? Da Michelangelo Maiorfi, ovviamente), era invisibile dalla strada, chiuso da anni, in attesa appunto di restauri che non trovavano fondi, e anche solo metterci piede era un privilegio. Ma soprattutto si trovava a poche centinaia di metri da quello degli Inglesi da cui tutto era partito — e dove i miei amici fuori sede non abitavano più, per cui anch’io avevo cessato di possederlo.

Passai circa sei mesi in questo cimitero: insieme ai due compagni di corso con cui preparavo l’esame fotografammo, rilevammo e disegnammo ogni scultura, ogni iscrizione, ogni crepa, ogni tomba, ogni gradino, oltre a tutti i carri funebri d’epoca che erano conservati sotto il loggiato e che suggerivano un impiego del sito — così, per cercar di trovare i soldi — come Museo delle Carrozze. Diventammo amici del custode, un ragazzo che viveva insieme alla madre nella casetta dalla cui cucina si scendeva nel cimitero con una scaletta di ferro. All’esame prendemmo trenta e lode. Io mi trovai così bene con quel professore che ci feci anche la tesi. Il professore capì che a me piaceva più la letteratura dell’architettura e mi affidò una tesi di Storia del restauro su Victor Hugo (non ridete, datemi retta: hanno già fatto una figuraccia in parecchi, su questo).

Dopo la tesi lasciai definitivamente Firenze per Roma, l’architettura per la letteratura. Un giorno, però, tanti anni dopo — tanti anni fa —, camminavo per Firenze insieme a Tiziano Scarpa: uscivamo dagli studi di Videomusic e andavamo verso la stazione per prendere il treno — a piedi, perché era una bella giornata. Passammo davanti al Cimitero della Misericordia, chiuso e invisibile dall’esterno come quando lo studiavo io. Provai a suonare il campanello e il custode c’era ancora, ma non era più un ragazzo. Si ricordò di me e ci fece salire — e soprattutto, dalla cucina, ci fece scendere nel cimitero. Era tutto ancora lì — sculture, iscrizioni, statue, carrozze —, nell’atto di andare dignitosamente in briciole. Gli sforzi fatti erano stati vani. I soldi per il restauro non erano mai venuti fuori. Fu un pomeriggio bellissimo. Chiedete a Scarpa se se ne ricorda. Io dico di sì.

Sandro Veronesi

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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